Refrazione

Refrazione Olografica

L’acuità visiva può essere definita come l’abilità del sistema visivo di identificare cambiamenti spaziali. Clinicamente è la capacità del soggetto esaminato di identificare la presenza o meno di un determinato target(1).

Esistono differenti tipi di acuità: a. morfoscopica, a. di risoluzione, a. di allineamento e minimo percettibile(2). Per identificare e quantificare i diversi tipi di acuità visiva, i professionisti utilizzano gli Ottotipi. Il termine ottotipo deriva da ‘visione’ e ‘carattere da stampa’, si tratta infatti di rappresentazioni grafiche di lettere o simboli usati per controllare la capacità visiva(2). Le notazioni principali che vengono utilizzate per la raffigurazione di questi simboli sono la frazione di Snellen ed il Minimo Angolo di Risoluzione. La frazione di Snellen è il rapporto tra la distanza a cui viene presentato il test e la distanza a cui la mira (o meglio il singolo carattere) sottende un angolo di 5 minuti d’arco. Per esempio un’acuità visiva di 6/6 indica la capacità del soggetto esaminato di discriminare chiaramente un carattere, che sottende un angolo di 5 minarc, alla distanza di 6 metri. Il Minimo Angolo di Risoluzione (MAR) è la dimensione angolare di un dettaglio critico che può essere identificato dal soggetto(1). Il LogMAR è il logaritmo del minimo angolo di risoluzione (10√10), ad esempio il logaritmo di un MAR di 1’ è 0, quello di 10’ è 1(2). Il discorso legato alla realizzazione degli ottotipi e alla loro rappresentazione e quantificazione numerica è molto più ampio ed interessante di quanto detto in questo scritto, ma ai fini dell’argomentazione di seguito riportata ci basta tenere presente quanto detto. Risulta utile approfondire questi aspetti in quanto sono alla base della pratica clinica optometrica.

Passiamo ora all’argomento cardine che verrà trattato di seguito: la Refrazione Olografica. Come già detto, esistono differenti tipologie di ottotipi utilizzati per la rilevazione dell’AV. Un modello originale basato sulla rappresentazione olografica è stato proposto da K.V. Avudainayagam e C.S. Avudainayagam, nel 2003. Prima di addentrarci nelle caratteristiche di questo modello vediamo brevemente quali sono i principi fisici che rendono possibile la rappresentazione olografica. Innanzitutto con il termine ologramma s’intende un’“immagine tridimensionale di un oggetto su lastra fotografica ottenuta sfruttando l'interferenza di due fasci di luce laser, uno diffratto dall'oggetto e l'altro riflesso da uno specchio. La tecnica olografica fu inventata nel 1947 dal fisico D. Gabor(3). (Fig.1)

L’immagine presentata, a questo punto, risulterà poco chiara e confusionaria ma tra poco sarà tutto più nitido. Proviamo a fare un pò di chiarezza citando le parole dell’ingegnere M. Muratori della Rai (Centro Ricerche e Innovazione Tecnologica) in merito ai principi dell’olografia. “Olografia è una parola composta dai termini olo- e –grafia. Il primo, usato come prefisso, deriva dal greco olos, olo-, “tutto” e ha significato di tutto, intero, totale o interamente. Il secondo termine, usato come suffisso, deriva dal greco –grafia, a sua volta derivato da grafo, “scrivere”, e significa scrittura, disegno, descrizione, trattato e similari. Pertanto il termine olografia indica un metodo di descrizione, grafica o iconografica, completa di un oggetto. [...] Il fascio luminoso generato da una sorgente coerente, nel caso considerato un laser, viene formato e diviso tramite specchio semiriflettente, prisma o apparecchiature simili, al fine di ottenere due fasci luminosi tra loro coerenti. Uno dei due fasci costituisce il fascio o raggio di riferimento. L’altro viene proiettato verso l’oggetto, generando (per riflessione, diffusione, trasmissione o diffrazione) il fascio o raggio oggetto. I due fasci, quello di riferimento e quello oggetto, vengono fatti convergere in una zona dove, grazie alla loro coerenza, si generano fenomeni di interferenza, caratterizzati da una distribuzione spaziale di zone chiare e scure, risultato, rispettivamente, dell’interferenza costruttiva e di quella distruttiva. Ponendo in tale zona una lastra di materiale sensibile, per consuetudine una lastra fotografica particolare, questa viene impressionata in proporzione all’intensità luminosa spazialmente presente, così memorizzando il prodotto dell’interferenza tra i due fasci luminosi in quello che viene chiamato ologramma”(4). (Fig.2)

Prendiamo ora l’immagine di riferimento e proviamo descrivere più semplicemente che cosa accade. Seguirà una quanto più breve descrizione del concetto fisico alla base del comportamento della luce affinché sia possibile la generazione dell’ologramma. Le onde elettromagnetiche provenienti da una normale lampadina, sono innanzitutto divergenti dal punto di illuminazione originario, ma soprattutto sono casuali ovvero se dovessimo scattare un’istantanea delle onde elettromagnetiche emesse da una sorgente luminosa policromatica (luce bianca) in un determinato punto nello spazio, troveremo un’insieme di onde elettromagnetiche con oscillazioni del tutto casuali tra loro. Prendendo una fonte luminosa monocromatica invece, otterremmo l’esatto opposto. Infatti le onde elettromagnetiche generate da una fonte monocromatica come il laser, si muoveranno nello spazio con la stessa intensità e la stessa oscillazione. Questo fa sì che la fonte luminosa emessa da un laser rispetti il concetto di coerenza (al contrario della fonte policromatica che risulta essere incoerente).

Tornando ad osservare l’immagine quindi avremo il fascio di luce coerente (monocromatico e con fronte d’onda piano) all’inizio del nostro apparato olografico. Uno specchio semiriflettente dividerà il fascio di luce coerente in due fasci di luce monocromatici anch’essi coerenti. Uno dei due fasci sarà diretto verso la lastra fotografica (fascio di riferimento) e l’altro fascio (fascio illuminante/oggetto) sarà diretto verso l’oggetto che vogliamo ricreare olograficamente. I due fasci vengono fatti convergere in uno zona, in cui è collocata la lastra fotografica, e grazie alla loro coerenza generano il fenomeno di interferenza e di conseguenza si formeranno zone di luce e di ombra (risultato dell’interferenza distruttiva e costruttiva). Grazie a questo fenomeno un’osservatore posto dietro alla lastra fotografica potrà osservare l'immagine olografica. La lastra fotografica deve essere ad alta planarità e rispettare alcuni standard legati allo spessore per evitare che si generino fenomeni indesiderati di diffrazione (...) Si noti che sebbene la lastra fotografica sia un supporto comunemente usato anche per la semplicità d’uso, sono utilizzati anche altri materiali quali: nastro vinilico, termoplastiche, cristalli elettroottici, pellicole ferromagnetiche, fotopolimeri(4).

Dopo questa doverosa e si spera poco tediosa introduzione prettamente fisica, passiamo alla descrizione dell’olografia in campo optometrico.

Come detto precedentemente uno dei primi ottotipi olografici finemente strutturati è quello di K.V. e C.S. Avudainayagam del 2003(5).




Sarà necessario tenere a mente lo schema e la figura precedentemente introdotti per riuscire a comprendere meglio le fasi di sviluppo del modello di K.V. e C.S. Avudainayagam. Di seguito è riportata l’immagine (Fig.3) dell’apparato utilizzato per la generazione dell’immagine olografica. Come possiamo vedere nell’immagine di destra sono presenti la sorgente monocromatica (laser), lo specchio semiriflettente o sistema di prismi, varie lenti che serviranno a far collimare i fasci luminosi, l’oggetto (indicato come 3-D oject, a sinistra nella foto) e la piastra fotografica su cui verrà generato l’ologramma. Tutti gli altri oggetti presenti nell’apparato non verranno approfonditi ulteriormente a causa della già prolissa descrizione del fenomeno fisico. (Fig.3)

Lo schema utilizzato per l’acquisizione dell’immagine olografica segue il modello schematico descritto precedentemente. Vediamo ora come è stato strutturato l’ottotipo in questo particolare studio. Osservando l’immagine a sinistra della figura 3, possiamo notare come la singola mira sia raffigurata una sorta di raggiera che richiama il FanChart o l’orologio per astigmatici. Al centro di questa raggiera, di 3 mm di diametro, gli autori hanno disegnato un punto che dovrebbe aiutare il soggetto esaminato ad osservare il centro della mira. Lo spazio angolare delle linee radiali nella mira è equivalente a 15°. L’oggetto 3D è posto ad una distanza fissa di 5 cm dalla lente collimatrice di 20 D. Come possiamo vedere chiaramente nella figura (Fig.3), sono presenti nove mire poste a distanze differenti. La mira centrale è equivalente al valore 0.00 D, quindi la mira che un soggetto emmetrope o emmetropizzato riesce a vedere nitidamente. La distanza tra ognuna delle singole mire è calcolata per far si che ci sia un escursione diottrica di 4D, ovvero da -2.00 D (in basso a sinistra) a +2.00 D (in alto a destra), con step di 0.50 D. Sarà tutto più chiaro osservando la Figura 4. È possibile simulare altre mire variando la distanza di queste ultime nella creazione del modello 3D.

Nella costruzione dell’oggetto 3D è necessario far sì che l’astigmatismo indotto dal disallineamento delle mire risulti non significativo (può essere interessante approfondire e calcolare l’angolo massimo fuori asse θmax e la formula dell’astigmatismo indotto dato da F{1+(sin2 θmax/2n)}tan2 θmax, dove ‘n’ è l’indice di refrazione e F il potere focale della lente). A questo punto non resta che far osservare al soggetto esaminato l’immagine olografica sulla piastra fotografica. Se il soggetto presenta un’ametropia assiale o refrattiva totalmente sferica, l’immagine che identificherà come nitida sarà equivalente al grado di ametropia. La mira risulterà interamente a fuoco e le linee della raggiera risulteranno tutte a fuoco simultaneamente. Nel caso in cui invece il soggetto dovesse presentare un’ametropia astigmatica (combinata ad un’ametropia sferica) l’immagine che identificherà come la più nitida sarà sempre equivalente al suo grado di ametropia ma le linee della raggiera saranno nitide o sfocate nella direzione complementare all’asse dell’astigmatismo. Vediamo un paio di esempi osservando la Figura 5.

L’immagine di sinistra simula la visione di un soggetto miope di 1D, infatti la mira identificata come singola dal soggetto è la mira in basso a destra equivalente a -1.00D. L’immagine di destra invece simula la visione di un soggetto con la seguente ametropia -1.00/-1.00x90°. Inizialmente il test può risultare di difficile interpretazione ma è evidente come l’individuazione di una determinata ametropia e la sua quantificazione è molto più rapida e diretta. Per l’esecuzione del test infatti il soggetto non deve far altro che riferire quale mira risulta più nitida e l’identificazione dell’ametropia da parte del soggetto esaminante risulta essere di facile comprensione.

L’ottotipo olografico di K.V. e C.S. Avudainayagam, come ampiamente detto, è stato uno dei primi modelli sviluppati. Ad esempio N.H.N. Nguyen(6) nel 2016 pubblica uno studio sulla performance di un ottotipo olografico su base LogMAR per la valutazione del difetto visivo sferico come metodo alternativo alla tradizionale refrazione in annebbiamento. Nguyen utilizza come oggetto 3D un ottotipo LogMAR. Osservando ora lo schema dell’apparato di Nguyen (Fig.6), possiamo notare molte analogie con i modelli precedentemente descritti.

Nguyen utilizza un ottotipo LogMAR per la valutazione dell’AV da vicino (a 50 cm) e lo posiziona sul piano focale di una lente con lunghezza focale di 50 cm, illuminandolo con un fascio monocromatico (laser) di 633 nm (He-Ne laser)(6). L’immagine dell’ottotipo generato da questo apparato è formata all’infinito ottico e appare di colore rosso. Come per il modello di K.V. e C.S. Avudainayagam l’immagine olografica viene formata sul piano fotografico per interferenza. Già a questo punto possiamo osservare due aspetti interessanti. Il primo è legato alla vergenza che giunge al soggetto esaminato. Durante una refrazione ‘standard’ l’ottotipo è posto ad una distanza superiore o uguale a 4 metri, affinché la vergenza sia il più approssimabile a zero (a 4 metri in realtà è di 0.25 D). Considerando la distanza superiore equivalente a 6 metri la vergenza, seppur approssimabile a 0.00 D in realtà è di 0.16 D. Nel modello olografico invece essendo la mira posta all’infinito ottico la vergenza è realmente equivalente a 0.00 D. Il secondo aspetto invece è legato alla sorgente luminosa della mira. Nella refrazione ‘convenzionale’ la mira presentata sull’ottotipo è una sorgente policromatica (nera su sfondo bianco). In questa condizione la lunghezza d’onda che viene portata a fuoco sulla retina è equivalente a 570 nm (giallo) contro i 633 nm (rosso) del test di Nguyen. L’aberrazione cromatica longitudinale di queste due lunghezze d’onda è stata misurata approssimativamente di 0.30 D. Il fatto che la differenza media tra refrazione olografica e refrazione convenzionale fosse 0.06 D suggerisce che durante la refrazione olografica, la messa a fuoco a 633 nm era 0.30 D - 0.06 D = 0.24 D dietro la retina, con la possibilità per i soggetti di accomodare di tale misura(6). In parole povere la refrazione convenzionale risulta essere più positiva di 0.24 D oppure la refrazione olografica risulta più negativa sempre di 0.24 D. Detto ancora diversamente è come se con la refrazione olografica si lasciasse il soggetto nel ‘primo rosso’ della fase di bilanciamento monoculare con il test del duochrome, in modo da preservare il più possibile l’accomodazione.

Siamo giunti al termine della descrizione della refrazione olografica ed è il caso di tirare le somme. Alla luce di quanto visto precedentemente la refrazione olografica risulta essere una valida alternativa alla refrazione convenzionale, in più porta alcune migliorie ovvero la semplicità di interpretazione dei risultati, la capacità di ricreare l’infinito ottico e quindi la più naturale condizione visiva, i caratteri non perdono di contrasto e il sistema non si degrada con il passare del tempo e con l’utilizzo. Inoltre questa tecnica è anche in grado di indagare l’astigmatismo. Possiamo affermare che potenzialmente la refrazione olografica ha tutte le carte in regola per essere considerata una delle tecniche che potranno essere utilizzate nei prossimi decenni per l'identificazione delle ametropie sferiche e non solo.

Figura 1

Figura 2

Figura 3

Figura 4

Figura 5

Figura 6

Bibliografia:

  1. Rosenfield M., Logan N., Optometry (2009)

  2. Rossetti A. , Gheller P., Manuale di optometria e contattologia, Seconda edizione (2003)

  3. Enciclopedia Treccani, www.treccani.it/enciclopedia

  4. Muratori. M., Olografia principi ed esempi di applicazioni (2006).

  5. Avudainayagam K.V., Avudainayagam C.S., Holographic multivergence target for subjective Measurement of the astigmatic error of the human eye. (2003)

  6. Nguyen N.H.N., Holographic Refraction and the Measurement of Spherical Ametropia (2016)

  7. Avudainayagam K. V.,* Avudainayagam C. S., Nguyen N., Chiam K. W., and Truong C., Performance of the holographic multivergence target in the subjective measurement of spherical refractive error and amplitude of accommodation of the human eye (2007)

  8. Kodikullam V. Avudainayagam,* Chitralekha S. Avudainayagam, Nicholas Nguyen, Kian W. Chiam, and Cann Truong, Target in the subjective measurement of spherical refractive error and amplitude of accommodation of the human eye (2007)


A cura di Rossotto Marco